Fin dalle sue origini il teatro ha rappresentato il luogo dell’immaginario, del sogno, del possibile, in altre parole, della libertà umana ai limiti del divino. Mario Martone con il suo Qui rido io ha saputo cogliere magistralmente, con il suo sguardo da regista cinematografico, l’indipendenza del teatro e dell’attore, fedele solo ai suoi padri e ai suoi spettatori.

Una riflessione sull’Autore
Punto nevralgico è la riflessione sull’Autore che ci offre uno squarcio su cosa è stato e cos’è significata la vita sulla scena per le grandi compagnie, agli albori dell’allora nascente SIA (Società per gli Autori), madre dell’attuale SIAE.
Cuore della pellicola è, infatti, l’annoso processo ai danni di Scarpetta per la parodia della famosa opera di Gabriele D’Annunzio “La figlia di Iorio”, spacciata per una contraffazione ai danni del poeta abruzzese.
Questa poetica della piena autonomia del teatro popolare si rispecchia totalmente in una delle battute che il piccolo Eduardo De Filippo, figlio naturale dello stesso Scarpetta, pronuncerà a Peppino, suo fratello, sottolineando come la libertà piena di essere se stessi ed essere riconosciuti come tali avvenga solo lì, sul palco di un teatro, su tavole di legno spolverate dai corpi degli attori, quelli di sempre, ma che ogni sera appaiono po’ diversi agli occhi del pubblico.
La maschera e l’attore
Qui rido io è anche un dipinto che rappresenta le ultime maschere e la loro morte, come Pulcinella privo di vita sul palcoscenico. Questo è forse un richiamo ad Antonio Petito – fra i più celebri attori che indossarono la sua maschera – maestro di Scarpetta, morto in scena. E così arriva anche la fine di Felice Sciosciammocca, maschera appunto reinventata da Eduardo Scarpetta.
A portare in vita il capocomico è uno dei migliori attori del panorama italiano contemporaneo, Toni Servillo.

Una scelta felice e sicuramente indovinata sotto tanti punti di vista. Servillo è un napoletano e si sa come la città abbia un forte legame con la teatralità, un luogo in cui il comportamento sociale stesso è recitato. Istrionico. E in Napoli convive un profondo rapporto fra passato e presente, in cui vecchio e nuovo coesistono non senza contraddizioni, così come nel film di Martone.
Ma non è solo per le sue origini che Servillo si è rivelato una scelta vincente nel ruolo di Scarpetta. Il caro Toni è noto per i ruoli di forte rilievo che ha interpretato a partire dal caratteristico Guappo di Rasoi, passando per Giulio Andreotti ne Il divo.
L’attore toni servillo
La sua incontestabile potenza scenica e capacità di dare spessore all’interpretazione e immedesimazione è visibile anche nella sua plasticità mimica, sfruttata quale mezzo per una migliore comprensione ed esternazione del personaggio.
La mimica è un elemento fondamentale nella tecnica recitativa di Servillo, sia in teatro sia al cinema. Una tecnica che in questo caso non viene penalizzata dal trucco di scena.
Toni Servillo riporta in vita Eduardo Scarpetta, riuscendo a provocare in noi sentimenti contrastanti: antipatia seguita da pena, simpatia e poi rabbia. Tutto è curato, dalla postura alle famose “camminate teatrali”, la voce con i suoi ritmi e i suoi toni, la risata e i pianti.

Particolarmente calzanti sono le riflessioni dello storico teatrale Claudio Meldolesi che insiste sull’affascinante mestiere della scena ed, in particolar modo, di quella partenopea: “[…]La cultura dell’attore è anzitutto cultura dell’accumulazione. Il nuovo attore si forma imitando il vecchio, per poi offrirsi all’imitazione dei successori, e ad ogni passaggio, insieme alle varianti dell’arte personale, si accumulano dell’eredità nei corpi dei recitanti[…]”.
Una scena particolarmente indicativa – almeno a nostro parere – è il momento della scrittura di un testo, in cui Servillo-Scarpetta si immergono nella creazione, fra suoni, parole e risate.
Momento filmico in cui è evidente l’estro creativo innato, viscerale, frutto di un’immersione totale in quella tradizione popolare che aveva avvolto il teatro napoletano, rendendolo simbolo dei vizi e delle virtù dell’essere partenopeo.
Scarpetta vs Sciosciammocca
Ma soffermandoci un po’ di più sulla figura di Eduardo, scopriamo che Scarpetta fa immediatamente suo il brillante ed accattivante compendio teatrale napoletano: il fortunato affiancamento al già citato Pulcinella-Petito, gli permise di ereditarne l’importanza, tramutandola in forza vitale essenziale per innovare le caratteristiche sedimentate della Commedia dell’Arte.
Il rinomato personaggio con maschera nera ed abito bianco, semplice quanto furbo, evolve e si trasforma nel nuovo, o quasi, Felice Sciosciammocca. Dal campano scioscia, letteralmente “colui che rimane a bocca aperta”, il termine indica l’essenza credulona e “boccalona” di un uomo semplice ed ingenuo.

Con cilindro in testa, giacca a quadretti e papillon, Feliciello appare per la prima volta nel 1853 al Teatro Partenope; data questa che sancisce la progressiva consacrazione di una semi-maschera in cui compenetrano variegati meccanismi di spettacolo ed identità. Nella creazione di Eduardo si mescolano, gli uni con gli altri, risaputi stilemi buffoneschi dialettali con una raffinata vena caricaturale che prende di mira la noblesse, costituendo quel sagace contrasto tra alto e basso, tra miseria e nobiltà.
La “missione” di Felice Sciosciammocca
Felice Sciosciammocca incarna perfettamente la “missione” del suo creatore: un essere unidimensionale, privo di cervellotici sottotesti, che vive la realtà così come gli si propone. Espressione massima di ciò che il personaggio rappresenta, si concretizza nella sua opera più conosciuta: Miseria e Nobiltà presentato nel 1888 al Teatro Mercante di Napoli.

Felice, fin da subito, rispecchia il protagonista perfetto per quel pubblico consapevolmente interessato alla risata più semplice ma caldamente autentica, senza orpelli intellettualistici. Un pubblico che Scarpetta aveva individuato come proprio e che, a sua volta, lo aveva amato ed osannato. Ad emergere, costantemente, è l’invito perenne che l’autore rivolge alla sua gente: ridere e vivere, perché solo il teatro può esorcizzare la morte. E quella bruciante frase incisa sulla facciata della sua villa a Napoli, Qui rido io, contribuisce all’ imprimerlo nella mente.
Il film di Martone sa di teatro. È nato da chi nel teatro si è formato e cresciuto, che mostra il declino di un uomo. Ma è anche uno sguardo dietro le scene, nelle pause, nell’eccitazione, nelle scelte di un capocomico che segue la battuta alla lettera.
Un film che sa di Napoli, di teatro e di tradizione.
Gabriella Birardi Mazzone
Miriam Raccosta
Noemi Spasari