L’olocausto in forma di fumetto
Sublimazione è un termine che attiene non soltanto all’ambito della fisica nei passaggi di stato, dal solido all’aeriforme, ma viene impiegato anche nella sfera psicoanalitica con l’accezione della trasformazione di una pulsione aggressiva in una dimensione che la valorizzi e la renda socialmente accettabile. Il fumetto Maus di Art Spiegelman è l’esempio più emblematico di questo processo che rende, poeticamente sublime, una delle pagine più tristi della Storia europea assieme ai suoi protagonisti: l’Olocausto ebraico.

Quello che è più geniale, come già il titolo e la copertina annunciano, è la scelta di rappresentare i personaggi non in forma umana, ma in quella animale: gli ebrei perseguitati sono i topi (omaggio a Mickey Mouse come esplicitato nell’epigrafe ad inizio del secondo capitolo), i gatti i nazisti, i maiali i polacchi, i cani gli americani, le rane sono i francesi. Strutturalmente l’opera si divide e raccoglie in due parti Mio padre sanguina storia, composto da 6 capitoli (pubblicato per la prima volta nel 1986, in Italia nel 1989) e E qui cominciarono i miei guai, realizzato in 5 capitoli (uscito nel 1991 e nell’edizione italiana nel 1992).
La storia di una lotta senza vincitori
Il primo racconta le vicende di Vladek Spiegelman, padre dell’autore, dalla gioventù fino al 1944. L’autore si raffigura intento a farsi narrare la storia della vita di suo padre, che realizza graficamente, utilizzando come io narrante la voce di Vladek, perfettamente realistica nella trascrizione: la sua lingua inglese colorita di polacco con inflessioni dello yiddish. In questo modo riesce a raccontare contemporaneamente la sua storia e quella del genitore. Le immagini ripercorrono gli anni spensierati della giovinezza, l’incontro ed il matrimonio con Anja, la madre dell’autore, fino ai primi tragici avvenimenti: l’inizio delle persecuzioni; la separazione dal primogenito Richieu, rifugiato in un posto più sicuro, ma morto poco dopo; il rifugio in Ungheria e l’approdo tanto temuto ad Auschwitz.

Il secondo capitolo mette in luce i conflitti interiori dell’autore che sente il peso di essere “un figlio di sopravvissuti”, fortunato da una parte nell’aver scampato la tragicità della storia, ma dall’altra vittima di un’eterna lotta con i sensi di colpa.
Il nero della storia sul banco della memoria
Le pagine bianche che si colorano del nero della grafite di immagini complesse e stilizzate pongono dinanzi al lettore, non solo l’anima dell’autore, ma anche quella di suo padre Vladek duro, avaro e burbero, che nella lotta alla sopravvivenza ne è uscito vivo, ma non di certo migliore.
Interessante, infatti, il suo ritratto: egli accetta di buon grado di raccontare la sua storia personale, ma mal sopporta l’espediente di essere rappresentato come un topo.
Il processo di lettura di questa seconda parte avviene a poco a poco, spesso dolorosamente a fatica, perché le sequenze grafiche, non lasciano spazio a scene edulcorate o raffinate, ma diventano macigni sulla coscienza umana.
Il lettore fa i conti con ritratti severi, lucidi ed estremamente dettagliati delle giornate vissute da Vladek nei campi di Auschwitz e Birchenau, nel combattimento quotidiano per afferrare, con le unghie e con i denti, ancora quel briciolo di speranza di riuscire a sopravvivere. Le pagine del fumetto si concludono con la morte di Vladek nel 1982 e ricuciono, con gli ultimi fili della storia, il ricongiungimento, a guerra finita, con la moglie Anja e la nuova vita, prima in Svezia e poi in America.
Lo stile in bianco e nero apparentemente minimale delle immagini racchiude una complessità ricca di dettagli, con molte soluzioni grafiche assolutamente originali: per comunicare, ad esempio, le mentite spoglie di Vladek ed Anja, che per passare inosservati cercano di sembrare polacchi, Spiegelman disegna i personaggi con delle maschere, in questo caso, di maiali.

I segni dell’orrore nazista sono presenti anche nella configurazione delle strade che ricordano il simbolo della svastica.
La forza di Maus sta nell’aver scardinato, in maniera definitiva, sebbene persista soprattutto in Italia una certa resistenza pregiudiziale, il concetto di fumetto come genere letterario minore o collocabile nell’ambito di una, non meglio definita, paraletteratura.
Non solo perché il suo autore è stato insignito del Premio Pulitzer, raggiungendo il primato mai ottenuto fino ad ora nel genere, ma anche perché il racconto biografico, con la potenza artistica delle immagini, è in grado di fornire una testimonianza storica lucida, profonda, autentica, priva di mistificazioni, in cui si è facili cadere a proposito di Shoah.
A distanza di più di trent’anni, l’opera di Spiegelman insegna che, in alcune pagine orrende della Storia, persino quelle che tristemente oggi siamo chiamati a scrivere per ragioni diverse, spesso è arduo stabilire vincitori e vinti, vittime e carnefici. Senza rendercene conto diventiamo sia gli uni che gli altri, in una spasmodica lotta alla sopravvivenza, prede di un’irrazionale bestialità che ci fa diventare più topi dei topi.